Condividiamo l’editoriale di Matteo Lancini per La Stampa.

Per dare senso alla nostra fragile esistenza, siamo chiamati a trasformare ogni avvenimento drammatico in un’occasione di crescita e di sviluppo, ogni grave crisi in un’opportunità evolutiva.

Provare a compiere questa operazione di fronte alla tragedia di Roma, non è cosa semplice e il ricorso ai soliti anatemi nei riguardi dei social e della vacuità dei contenuti che abiterebbero internet e la mente delle nuove generazioni rischia di diventare il sentiero più percorribile per districarsi dall’angoscia e dai nostri dubbi sulla società in cui viviamo e di cui siamo partecipi.

A mio avviso, è invece arrivato il momento di assumerci delle responsabilità, di svolgere una funzione davvero adulta rispetto a cosa significhi aver costruito e alimentato una società basata sulla visibilità e sulla popolarità ma, soprattutto, su quello a cui intendiamo rinunciare per limitare la deriva di una sovraesposizione senza limiti, alla ricerca del successo e dell’apparire individuale.

Parto dal disagio che ho sperimentato pochi giorni fa alla festa di fine anno della scuola primaria di mio figlio, da un momento di grande gioia e tristezza come quello che accompagna l’ultimo giorno di scuola della quinta elementare, come si chiamava un tempo. La celebrazione della fine del percorso delle primarie è durata quasi due ore, ogni bambino è stato nominato individualmente e applaudito, la musica di sottofondo era stata selezionata accuratamente e il clima emotivo ha raggiunto temperature elevatissime, al punto che moltissimi bambini e parenti piangevano disperatamente.

La quasi totalità degli adulti presenti, genitori, nonni, tate ha trascorso la giornata impegnata a produrre video e fotografie attraverso lo smartphone, forse ne avrete sentito parlare, quell’oggetto che non vogliamo entri a scuola e che sosteniamo sia troppo utilizzato dalle nuove generazioni.

Tutto bello, pure troppo, in una celebrazione esagerata e inevitabilmente esasperata dalle decine di moderne macchine da presa che alimentano la sovraesposizione dei sentimenti, in una società sempre più pornografizzata, dove il confine tra esperienza intima e pubblica non esiste più, dove tutto è condizionato dalla grandiosità evocata dall’essere ripreso e pubblicato online.

Ci siamo dentro tutti, noi genitori per primi, all’interno di uno scenario sempre più dissociato, dove i testimonial della bellezza autentica sono ciò di meno autentico che ci sia, dove viviamo di audience a tutti i costi per poi atterrirci quando la ricerca di audience diventa challenge giovanile, dove sollecitiamo lacrime e commozione per poterle riprendere più che condividerle nell’intimità, fuori dallo sguardo della visibilità dello smartphone. Rimuoviamo il dolore spettacolarizzandolo.

Il rischio è quello di alimentare un sentimento profondo che in adolescenza e nella giovane età adulta rischia di trasformarsi in una disperazione della visibilità e della popolarità, dove si può anche rischiare di morire o di uccidere pur di essere visti, pur di ottenere quello sguardo che ti fa sentire di avercela fatta, di avere avuto successo. Altrimenti si è dei falliti, l’audience è ai minimi termini, nessuno ti sta più riprendendo.

È arrivato il momento di vietare l’ingresso degli smartphone a scuola agli adulti, a tutti gli adulti, in ogni occasione. È arrivato il momento di rinunciare a qualcosa, invece di continuare a privare le nuove generazioni del diritto di essere sé stessi, di emozionarsi, piangere, fallire, ridere, giocare, partire, senza qualche operatore televisivo vestito da adulto che ti riprende.